Intervento di Giorgio La Malfa al Forum “Europa senza Unione”, organizzato dal Centro Italiano Prospettiva Internazionale (CIPE) il 29 novembre 2005 a Bruxelles. Può esistere un’Europa senza Unione? Dopo venti anni di successi l’Europa si scopre in una profonda crisi che, a seguito delle bocciature referendarie del Trattato Costituzionale in Francia e Olanda, è di difficile soluzione. Le ragioni di questa crisi hanno radici nel passato. Il problema si pose già nel 1992, quando fu lanciata l’Unione monetaria, come base per una futura, anche se non dichiarata, Unione politica. Successivamente, l’allargamento a dieci nuovi paesi acuì la complessità dei problemi istituzionali. Al punto che per risolverli, e per dare maggiore legittimità popolare all’Unione, si decise di scartare il metodo puramente intergovernativo, creando una Convenzione costituente che includeva statisti – tra il quali il suo presidente, Valery Giscad d’Estaing – rappresentanti dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, della Commissione europea. Purtroppo, la parola stessa, Trattato Costituzionale, ha messo in moto una opposizione molto forte in tutti i Paesi, che si è poi manifestata con il voto popolare in Francia e in Olanda. Il Presidente della Commissione Europea, il portoghese Barroso, ha sostenuto più volte che l’esito negativo dei referendum non è scaturito dall’opposizione al testo, ma al contesto. Il pessimismo emerso contro il contesto che si era creato è stato determinato da vari fattori: l’introduzione dell’Euro, con aumenti di prezzi in alcuni beni di consumo; l’allargamento e i timori per l’aumento dell’immigrazione - cose che hanno fortemente spaventato le opinioni pubbliche nazionali. Il mio parere è che siano soprattutto la disoccupazione e l’insicurezza economica a fomentare il contesto sfavorevole. La gente ha maturato il sospetto che il progetto di Unione Europea potesse ancora aggravare una situazione già difficile. Sono certo che un’Europa senza prospettive di successo economico si ferma. In questa fase la Costituzione è sostanzialmente congelata. Non credo che la Francia e l’Olanda possano rimettere in discussione la decisione referendaria. Ma la crisi che si è aperta in Europa è una crisi economica che, se non superata, non permetterà di fare passi avanti sotto il profilo politico-istituzionale. È però opportuno precisare che a rendere la crisi così profonda non sono stati solo i problemi interni dell’Unione. Anche le politiche degli USA, della Cina e dell’India hanno giocato un ruolo di grande rilievo. Una delle principali cause da sottoporre all’attenzione è che l’Europa ha paura di fare passi coraggiosi. Questa senso di paura dei Paesi membri si sta manifestando nel dibattito al Parlamento Europeo e a livello nazionale sulla direttiva per il mercato interno dei servizi. Rinunziare alle sicurezze del cosiddetto modello sociale europeo - per passare a minore sicurezza con maggiore flessibilita come hanno fatto gli Stati Uniti o la Gran Bretagna nel corso di questi anni - è un discorso ancora lontano dall’essere appoggiato dalle opinioni pubbliche nazionali d’Europa. Basta vedere cosa è accaduto in Germania al Cancelliere Angela Merckel che quando, da candidata, ha annunciato misure che andavano in quel senso, ha visto calare del 20% circa i consensi. In questo modo, la Germania rischia di rimanere impantanata nel vecchio modello e la stessa cosa, purtroppo, può succedere da noi, in Italia. Quanto alla domanda iniziale sull’esistenza dell’Europa senza Unione, la mia risposta è affermativa. Il problema dell’Europa non è la sua struttura giuridico-politica, ma invece la sua capacità di essere culturalmente ed economicamente pronta per i tempi di oggi. Diversamente, se resterà ancorata al passato, allora non ci sarà né l’Europa né l’Unione. Si deve rivedere il sistema di welfare e ridirigere la spesa pubblica? Libertà e fiducia sono la formula per governare la globalizzazione? A questa stessa domanda, 15 anni fa avrei risposto che la soluzione sarebbe stata una maggiore spesa e investimenti pubblici. Ma questo era possibile perché l’Europa era uno spazio prevalentemente “chiuso” rispetto al resto del mondo. Oggi, invece, con la globalizzazione, l’aumento della spesa pubblica non basta più. Oggi si deve necessariamente cambiare il modello, e si devono gestire i costi sociali del cambiamento. Solo accettando maggiore concorrenza e maggiore flessibilità si può pensare di farcela. La flessibilità è diventata una necessità, non è più un’ipotesi. Proprio il dibattito che si sta svolgendo sulla Direttiva servizi, dimostra che tutti i Paesi della “vecchia Europa”, tranne la Gran Bretagna e una Germania ancora indecisa, dicono sostanzialmente no alla concorrenza in materia di servizi. Sono invece favorevoli i nuovi Paesi membri dell’Unione. Io ho rappresentato la posizione italiana, che pur restando aperta al confronto, è favorevole alla direttiva. I posti di lavoro si troveranno solo lì, nei servizi. Che speranze può avere il Mezzogiorno italiano nelle condizioni attuali di declino industriale e della manifattura? Ormai, il suo sviluppo non dipende più tanto dalla crescita delle infrastrutture materiali (ponti, ferrovie, ecc...), ma da quella delle strutture immateriali - come Internet e i servizi. Se nelle università del Mezzogiorno si formassero adeguatamente i giovani per sviluppare il settore dei servizi, in qualche anno ci sarebbe un’inversione di tendenza. Un’economia com’è quella del Mezzogiorno oggi, può, o forse dovrebbe, passare direttamente alla modernità e alla dinamicità che si fonda sullo sviluppo dei servizi, saltando lo stadio degli investimenti pesanti e delle infrastrutture tradizionali che ormai sono di vecchia concezione e rischiano di essere assolutamente poco competitivi. Esiste però un problema culturale e politico. Ad esempio Guglielmo Epifani, il Segretario Generale della CGIL, il più grande sindacato italiano, sostiene che per rilanciare l’economia bisogna investire nella ricerca scientifica aumentando le imposte. Ma questo approccio soffocherebbe l’Italia e l’Europa. Su questo punto gli inglesi risponderebbero che la loro esperienza dimostra che è possibile coniugare una minore pressione fiscale con l’innovazione, con infrastrutture materiali adeguate e un modello sociale moderno e solidale. Per questa ragione, il PIL della Gran Bretagna è ormai più grande del 25% di quello italiano, mentre solo negli anni ottanta eravamo avanti noi. Il fattore di concorrenza dell’Europa non potrà essere il costo del lavoro; questa non solo sarebbe una lunga strada, ma probabilmente non percorribile per noi. Il modello americano forse è il migliore, basato sulla ricerca scientifica, la tecnologia, e la specializzazione. A questo proposito, pur non entrando nel merito della scelta, mi colpisce l’esclusione da parte della Svizzera dei prodotti OGM. Non bisogna dimenticare, infatti, che questa tipologia di prodotti, ha contribuito alla riduzione delle carestie nel mondo. Per uscire da questo stato di stallo l’Europa dovrà puntare sullo sviluppo continuo della tecnologia. Un esempio è l’Airbus. La società e l’economia europee del futuro dovrnno ispirarsi e basarsi sulla ricerca scientifica. Semplificando, al mondo esistono due modelli sociali: il modello della sicurezza, rappresentato dall’Europa e quello della precarietà/flessibilità, rappresentato dall’India, dalla Cina e dagli USA. L’Irlanda, ad esempio, è più vicina al modello della precarietà, che probabilmente potrebbe essere il modello europeo da seguire e migliorare. D’altra parte, lo ribadisco ancora, la sicurezza sociale è può essere garantita solo se l’economia cresce. Libertà e fiducia sono certamente fattori che contribuiscono allo sviluppo. Di certo questa è stata l’esperienza americana. È vero che oggi siamo di fronte anche a tassi di crescita imponenti da parte di aree del mondo dove la libertà e la fiducia hanno un valore relativo: la libertà è una conquista umana che va spesso al di là delle conquiste economiche. Ma credo che ci si debba aspettare una spinta verso un modello di società libera in molte parti del pianeta. Quanto alla fiducia, l’esperienza è diversa a seconda della tradizione dei vari Paesi. A mio giudizio, il punto è che la fiducia si stabilisce e si afferma culturalmente sulla base dell’esperienza e dall’efficienza che la fiducia ingenera o può ispirare. Certo è che nel mondo globale più alto è il tasso di fiducia e di libertà e più grandi sono le chances di crescita economica e quindi sociale. Il blocco di India e USA, mondi diversi e opposti, democrazie e autocrazie con crescita economica. Quali sono i riflessi nel dialogo con l’Europa? Che fare? Durante tutto il dopoguerra, c’è stata una tesi dominante che si potrebbe sintetizzare come la tesi di Altiero Spinelli: l’Europa doveva nascere da un Big Bang istituzionale. Senza un’Europa politica l’Europa non avrebbe fatto alcun progresso. Ciò richiedeva, e richiederebbe tutt’oggi, molta determinazione. Credo che un passo simile, almeno in modo consapevole, non sia possibile e non succederà. Il momento e l’occasione giusta, dalla nascita dell’Unione Europea, per poter aspirare a una simile decisione ci sono stati nel 1953-54, con un’Europa a sei Paesi, in un mondo bipolare, con gli Stati nazionali indeboliti dalla guerra, con la minaccia nucleare sovietica, con gli USA che spingevano verso una maggiore integrazione del blocco occidentale. Ma successivamente, dopo il veto francese alla Comunità Europea di Difesa nel 1954, dell’Europa politica è rimasto solo il miraggio. D’altra parte, nei giorni nostri il lavoro costituente di Giscard esplora la tesi del Big Bang, ma incontra ostacoli posti dai governi - e soprattutto dalla gente, che non vuole fare questo passo. Il motivo è la paura: i cittadini, benché la difendano come idea e ci si riconoscano, vivono con difficoltà lo Stato nazionale, mentre vedono con maggiore fiducia il governo locale, regionale e comunale. Insomma, più le istituzioni sono lontane, più aumenta la diffidenza. Il quesito da porsi è se oggi è poi così necessario fare l’Unione politica. Venendo io da una tradizione politica fortissimamente europeista, mi pongo questa domanda con coscienza. Forse dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni, è veramente necessaria. Basta vedere quanto poco siano efficienti i Consigli dei Ministri a 27. Ma dati gli ostacoli, e le paure precedentemente elencate, sarebbe forse auspicabile arrivare almeno ad adottare un sistema di voto a maggioranza nella maggior parte delle materie. Sono convinto che l’Europa politica, si farà solo quando sarà accettata, voluta e auspicata dalla coscienza degli europei. Nel 1932 Benedetto Croce scriveva così (cito a memoria): “sento già emergere una nuova identità europea... come dopo il Risorgimento gli abitanti dell’antico Regno, i napoletani e i piemontesi, cominciarono a sentirsi italiani senza peraltro abbandonare l’emozione per le loro più piccole patrie peraltro molto amate - così un giorno i francesi, i tedeschi e gli altri scopriranno di essere europei senza dimenticare le proprie patrie”. In pratica, l’Europa si potrà fare quando scopriremo di essere europei senza rinnegare le nostre origini n nazionali. Fino a quel momento bisogna vivere con la consapevolezza che non è detto che l’Europa debba essere politicamente unita, ma che è fondamentale non perdere la sfida con l’economia. È importante capire che il modello sociale può esistere solo se l’Europa cresce economicamente. È necessario difendere “il modello sociale europeo” così com’è, ma per raggiungere l’obiettivo di un welfare soddisfacente bisogna puntare sulla crescita. Non vorrei che quest’Europa vivesse ancora in una eredità di pensiero coloniale. Oggi noi europei stiamo solo restituendo la ricchezza sottratta alle colonie dell’Asia e di altre parti del mondo. Viviamo oggi una redistribuzione della ricchezza che penalizza l’Europa a favore dei tanti Paesi che per secoli hanno invece dato all’Europa. In Europa è necessario rimettersi a lavorare. Ma la domanda che dobbiamo porci è se ne abbiamo veramente voglia. Vogliamo davvero essere capaci di uscire dall’economia della rendita ed entrare nella produzione della ricchezza attraverso una cultura sociale nuova e un sistema economico veramente competitivo? Vogliamo noi europei cogliere la sfida? Non dimentichiamoci, ad esempio, a metà degli anni ottanta, la paura che aveva l’America, per la convinzione che il Giappone fosse destinato a soppiantare l’economia americana. Ma l’America ha reagito alla sfida rimboccandosi le maniche e dandosi da fare. È il Giappone, piuttosto, ad essere entrato in crisi. L’Europa, quindi ha davvero voglia di rimettersi in gioco? Oppure si trincererà nel protezionismo? L’idea di un’economia senza rendite è la vera sfida dell’Europa per i prossimi anni. Se l’Europa è in difficoltà come si colloca l’Italia? Il cammino dell’unità europea sarà inevitabilmente lungo, ma il punto più importante è quello di capire se si ha, in Europa, la forza di cambiare le prospettive economiche. Questo è un problema politico e di leadership. Per quanto riguarda l’Italia, la nostra crisi è molto profonda, ma possiamo ancora contare su un elemento importante di flessibilità, costituito dalle piccole e medie imprese. Infatti, per muovere o fare uscire da una crisi una grande impresa sono necessari tempi lunghi. Non così con le PMI. Il messaggio importante che ha cercato di dare l’attuale Governo è rappresentato dalla fiducia nella nostra capacità di ripresa. Ricordatevi l’atteggiamento ideologico che hanno avuto gli attori principali del teatro politico italiano negli ultimi cinquant’anni: assolutamente contro il profitto e contro la cultura capitalistica. Capitalismo senza i capitalisti; al loro posto, lo Stato. Le piccola e media impresa si sono sottratte a questa morsa e hanno di fatto hanno salvato il paese. In questo clima infausto, sono nati gli imprenditori italiani. Infine, il problema di rapporti dell’Italia con l’Europa è piuttosto serio: abbiamo una pubblica amministrazione non all’altezza del sfida, senza abbastanza consapevolezza di cosa voglia dire la costruzione dell’Europa e la difesa degli interessi nazionali. Forse non è un caso se abbiamo il record delle infrazioni al diritto comunitario. Questa mancanza di cultura europea, in un paese fortemente europeista, crea un serio problema. Usare l’idea europea e l’Unione Europea come terreno di scontro di politica interna, ovvero usare l’Europa come surrogato di politiche nazionali, o pretendere che taluni soggetti politici siano essi soli europeisti e gli altri no, è una dicotomia tutta italiana che fa male all’Italia in Europa, e all’Europa nel suo complesso. E ancora una volta l’attuale dibattito sulla direttiva servizi è la cartina di tornasole di una classe dirigente italiana che è strumentalmente europea, ma senza uno spirito europeista. Una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe dedicare degli sforzi non indifferenti per invertire il processo negativo in atto.